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La terra metafisica
Artist's Book - Original gelatin silver print
Euro 2.800,00 - Edizione dal N.11 al N.20
Edition of 100
Disponibili N.82 copie
Dimensione Book Cm 30x23x6
Pagg N. 216 cm 30x23
Il book contiene N. 10 fotografie cm 18x24 Gelatin silver print
Foto riprodotte N. 104
Copertina e risguardi interni contengono fotografie
Gelatin silver print
- Dimensione Book Cm 30x23x6
Pagg N. 216 cm 30x23
Il book contiene N. 10 fotografie cm 18x24 Gelatin silver print
Foto riprodotte N. 104
Copertina e risguardi interni contengono fotografie Gelatin silver print
L’opera “La terra metafisica” è composta da un volume nel formato di 23,5x30x5 cm e da una raccolta di 10 immagini 18x24 cm stampate dall’autore su carta fotografica Ilford MG ART 300 raccolte in un elegante contenitore.
Sulla copertina è applicata una stampa fotografica nel formato di cm 23,5x30 stampata su carta Ilford MG ART 300.
Nei risguardi di copertina e retrocopertina sono applicati stampe fotografiche originali.
Ogni 10 copie varia l’immagine di copertina e le 10 immagini del cofanetto.
Tutti i materiali utilizzati per la stampa e il confezionamento di questo volume sono Acid free.
Il volume è cucito a mano con filo refe.
Le foto originali allegate e utilizzate per la produzione di quest’opera sono Edizione di 10.
Il libro “La Terra metafisica”
Fotografie – Attilio Scimone
Testo critico – Alberto Giovanni Biuso
Formato – cm 23,5x30x6
Pagine 216
Numero foto riprodotte - 104
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Serie completa dei volumi con le diverse copertine
LA TERRA METAFISICA
Alberto Giovanni Biuso
Assumono molti nomi gli itinerari di Attilio Scimone dentro il silenzio e lo spazio: Paesaggi intimi, Multiverso, Silenzi, Still, Women in nondescript landscape. Titoli che si raccolgono ora nell’unità di una relazione profonda e totale tra Il tempo della natura e Il tempo della storia. Un’opera unitaria e plurale nella quale la maturità di Scimone artista della luce tocca una pienezza fatta di malinconia e potenza.
È il compimento di un cammino da sempre fedele alla materialuce che dà titolo alle ricerche svolte tra il 1990 e il 2010. Nelle immagini di quegli anni la luce si raggruma dentro la materia che era stata viva, pur se umilissima. Erano infatti erbacce di campo che trasumanavano e trasfiguravano nel tocco del fotografo che dava loro forma, profondità, sostanza.
Poi però lo spazio si è spalancato e le spine dei campi sono diventati i graffi dell’artista sulla materia fotografica. Sentieri, onde, terre, piante, grano vengono accomunati dal tocco della dissoluzione. È soltanto questione di tempo. Tempo del quale Scimone dice che è «un cerchio che finisce» ma che nella circonferenza di questo suo stare, sorgere e finire raccoglie figure femminili dentro l’aria, umani accompagnati dalle cose, silenzi di pietra e architetture di suoni, muri edificati dalla storia e colline plasmate dalle sere.
Tra le erbe, i silenzi, i graffi e le onde si staglia finalmente la bellezza. La bellezza per antonomasia, la bellezza paradigma, la bellezza che ci turba, ci avvolge, ci vince e fa felici. La bellezza della donna.
Multiverso le raccoglie, queste donne. Le raccoglie mentre sinuose avanzano coi tacchi dentro il grano o elegantissime sembrano supplicare la loro stessa pacata gloria. Le raccoglie mentre posano distanti dallo sguardo e dal desiderio del fotografo e mentre avvolte nel nero arcaico di Sicilia si accingono a riempire di sé i luoghi, la pellicola, le voglie, la memoria.
La memoria, il tempo perduto, la sua rimemorazione data dagli eventi apparentemente più banali, da quelle che Proust ha chiamato les intermittences du coeur, gli intervalli della mente tra gli istanti, nei quali la potenza dei fatti e delle cose sembra rifiorire intatta come è stata. C’è non poco di proustiano nel fotografare di Scimone. Perché Proust –come tutti nella sua epoca– viveva immerso nel bianco e nero. Per quanto oggi ci sembri singolare, infatti, ancora nei primi decenni del Novecento tutte le riproduzioni artistiche erano monocromatiche. La maggior parte dei quadri descritti da Proust e discussi dentro il suo romanzo lo scrittore li vide riprodotti in immagini fatte di bianco e di nero. Ma è stata anche questa difficoltà nel vedere il colore a rendere possibile il particolarissimo modo in cui Proust parla dei pittori e la continua creazione di colori di cui si compone la Recherche. Il bianco e nero diventa infatti la memoria che crea il mondo, il suo derularsi, diventa gli spazi, gli umani. Lo stesso accade in Scimone.
Ma la differenza c’è. Ed è profonda, è grande. Scimone non guarda quadri, non vive nella luce rarefatta di Parigi e dell’Europa più distante. Scimone immagina la luce del Sud, delle sue pietre, del suo spazio asciutto, inaridito, secco. Lo spazio che trionfa nel Tempo della natura, le cui immagini assorbono la disperazione mistica e felice delle terre infuocate da millenni di Sole, abitate dal lutto e dalla gloria, viventi nella servitù e incoercibili nell’anarchia. La natura che l’artista rende viva è fatta di disordine e di necessità, del giallo di campi riarsi e di un cielo senza pace, di quell’implacabile turchese che il suo stile ci restituisce fatto grigio e quindi ancora più bruciato.
Il movimento e lo stare degli umani sono intrisi nelle sue immagini di una solitudine senza salvezza, di una diffidenza senza futuro, di una solidarietà monadica che ignora la communitas.
La forma di questo artista sobrio e però spietato è intramata dell’ironia che sta al fondo della morte e che nell’ultimo tratto della propria fatica si piega lentamente verso il sonno invocando ancora una volta la Madre.
Perché è chiaro che le donne di Scimone sono la Madre quando ancora non era tale, quando costituiva il sogno erotico e silente della terra, quando era ‘signorina’ e già con questo solo nome scatenava il desiderio. Donne vestite di nero. Donne antiche pur nella loro giovinezza. Donne potenti nella loro distanza.
In queste femmine, in queste spine, in questi sentieri, in questi graffi, in questi arbusti, in questi soli, la vita è la tenebra che rende possibile ogni luce, l’esistenza è un arrendersi che non conosce sconfitta.
Un graffio è infatti la vita nei giorni che vanno, che scendono, che precipitano gli uni dentro gli altri, colmi di attesa, di luce, di pianto.
Un graffio è la storia fatta di finestre, di monumenti, di spazi e palazzi, di eventi e istanti colmi di attesa, di luce, di pianto.
Un graffio è la terra fatta di spighe, di rami, di nebbie e di sole, di prati neri dentro l’autunno dopo avere attraversato la gloria dell’estate, di piogge quiete e furenti, colme di attesa, di luce, di pianto.
Un graffio è l’amore, una passione che cammina tra i vortici del niente, la mente piena soltanto di se stessa, degli infiniti ricordi della vita, dello struggente sentimento di chi ha incontrato il Senso che attendeva e lo ha abbracciato. E può morire dicendo a se stesso: «Mi basta, ho vissuto per questo, sono esistito dentro un abbraccio colmo di attesa, di luce, di pianto».
È a questa luce, è a tale pienezza che tendono gli umani innamorati, vale a dire gli umani nell’ακμή, nell’esito supremo del loro respiro dentro il tempo: «Momento dell’affermazione, per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione –la contrazione– dei due abbracci» (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, voce Abbraccio)
È questa potenza della vita, della storia, della terra, dell’amore, che il bianco e nero materico e abissale di Attilio Scimone ci fa toccare, sfiorare, afferrare, vedere. Come se l’arte fotografica si fosse trasformata in domanda metafisica, nel labirinto di uno sguardo che coglie il mondo mentre germina dalla densità delle zolle, dall’armonia delle chiese, dal limpillio delle fontane, da sentieri astratti e interrotti, da colline che diventano città, da città che tornano fango, dal fango che gorgoglia dentro il tempo, dal tempo che si fionda nelle zolle.
I covoni si disfano, il bosco si bagna nell’inchiostro, le spighe diventano animali, il mare si fa grigio, gli umani si dissolvono nello spazio diventato statua. Degli umani resta l’ombra, come una dissipatio, che lascia solo tracce di ciò che sono stati: le città. Le strutture urbane costituiscono il Tempo della storia, sono le strutture solide, le piazze, le chiese, i monumenti, anch’essi dentro l’artiglio del tempo che le ha prodotte, che le nutre e che insieme le dissolve.
Questa potenza della materia, che è naturacultura inseparabili, diventa un quadrato, un trapezio, una figura geometrica composta di linee sature dentro un nero che apre ferite splendenti nella luce.
Sul graffio del reale si posa il graffio dell’invenzione tecnica, della manipolazione della pellicola che muta al modo di un batterio, delle gocce di grigio sul grigio del mondo, degli angoli cangianti nelle silenti prospettive dello spazio. Una tecnica che si fa meditazione oggettiva e insieme misterica, fredda e palpitante. Una misurazione di superfici dentro i luoghi che si inabissano nell’inquietudine della memoria, nelle paure del futuro, nella polvere lancinante del presente. Come se un ultimo sguardo umano si adagiasse sulle cose mentre la materia sta per declinare e con essa la possibilità che una mente ancora si sporga sul sogno che il mondo per noi è stato.
Una patina sembra posarsi sul reale, un pulviscolo di macchie, riverberi, rettangoli; patina fatta della spuma della materia più umile e tuttavia potente come il desiderio di esistere che intride ogni ente che appare in questo mondo. Le invenzioni ortografiche di Scimone disegnano una sintassi dell’immagine nella quale l’immagine giunge alla sua pienezza proprio mentre sembra che svanisca. E in questo vortice del nulla sembra attingere la calma di ogni cosa che sa essere stata, che niente può cancellare, neppure il graffio così profondo da diventare una ferita, neppure l’inquietudine così completa da farsi il lutto della mente che si poggia sugli oggetti, che chiede loro conto, che pretende si squadernino in claritas ma che proprio mentre sembra avvolgerli e nascondere regala loro la plastica potenza del futuro, del divenire, della μεταβολή, del mutamento incessante che intesse la materiavita, il flusso di pensieri, il cosmo tutto intero.
E questo accade attraverso una tecnica che trasforma i prati, le case, i corpi, le strade, in forme astratte, labirintiche e solari pur dentro il grigio della materia densa. Negli ultimi due secoli l’arte figurativa –come quella musicale– ha compiuto un gesto fondamentale: si è liberata dall’illusione della realtà, si è affrancata dalla semplice riproduzione di ciò che si presume esista e ha iniziato a generare essa stessa il mondo. L’astrattismo non è altro che questo, è la visione platonica dell’essenza degli enti e dei processi. È dunque un modo per purificare l’opera da ogni ornamento ed emotività, per giungere là dove i segni e i colori parlano da se stessi di se stessi. E infatti una delle caratteristiche più pregnanti di Allusiva è la presenza in essa del riverbero della materia, dell’eco sempre attiva della forma. Forma nella quale la misura e il sogno si coniugano nella materia che reclina dentro il tempo.
È raro che la fotografia riesca a toccare questo abisso della forma, dei luoghi, del tempo. L’arte di Scimone lo sa fare con l’implacabilità del silenzio, con l’assenza degli umani dentro il suo tacere, con confini che sembrano netti al proprio interno ma che nell’istante che li segna si dissolvono sulla tela come tracce di preistorici dagherrotipi.
Un fotografare arcaico e modernissimo, sempre sul limine dello sparire e dello stare, della dissolvenza di ogni cosa in una nube di polvere e di rinuncia a stare ancora nelle ore, negli anni, nelle lancette dell’esistere che scorrono inesorabili verso ogni tramonto.
Sembra che Scimone sia capace di cogliere l’istante impossibile della dissoluzione, prima che la nostra magnifica e piccola stella si ampli sino a inglobare la Terra e, prima ancora, a far evaporare da essa ogni liquido e dunque la vita. A quel punto rimarrà la pace e non ci sarà più nessuno a ricordarsi della vita, della storia, della terra, dell’amore. Sarà come se non ci fossero mai stati. Come se un dio avesse plasmato il cosmo dalla sua annoiata gloria (e l’avesse gettato nel tempo come il bimbo che gioca con i dadi) e il mondo fosse diventato questo graffio, una struttura d’inganno e d’illusione nei millenni, forme disperse come vento, fotogrammi del nulla che diviene.
La luce malinconica di Scimone è pur sempre luce che s’irradia nel gelo abbandonato della vita. E che s’infigge dentro la sua vittoria, si allarga nelle lande atroci e desolate del tempo che non conosce fine, che diventa una scultura immobile mentre il graffio sul negativo del mondo vibra ancora una volta e ancora una volta e ancora.
OPERE ORIGINALI FINE ART Limited edition
Le opere di Attilio Scimone sono disponibili in edizione limitata.
Stampe originali analogiche stampate in Gelatin Silver Print
o Fine Art Print Giclée.
Firmate e numerate
sul retro.
Ricerca costante su temi che riguardano in particolare il territorio siciliano;
gran parte delle immagini sono realizzate su pellicola di grande formato e stampate su carta fotografica.
Le immagini prodotte sono acquisite e da esse generate file di grandi dimensioni
per ottenere stampe fine art di grandissimi formati
per allestimenti museali, fieristici e arredo.
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